Anna Malfaiera appartiene a quella generazione di poeti che, avendo esordito negli anni Sessanta, si sono trovati come schiacciati fra i poeti della vecchia guardia - ermetici, postermetici, neorealisti - e quelli della nuova (neosperimentalisti alla maniera pasoliniana e neoavanguardisti).

 

Come altri scrittori difficilmente inquadrabili in gruppi, scuole, etichette di qualsiasi conio, la Malfaiera ha dovuto aspettare un po' prima che la sua poesia fosse considerata in tutta la sua importanza, ma lei non ha avuto fretta, ha continuato a seguire con estrema coerenza la sua strada ed è passata indenne anche attraverso i terribili anni Settanta durante i quali si sono affermate alcune linee di tendenza, poi fortunatamente in gran parte rifluite o comunque ridimensionate.

 

Ciò che, insomma, in origine può aver nociuto, alla fine si è rivelato come "il più considerevole" dell'operazione poetica compiuta dalla Malfaiera: il fatto, voglio dire, che questa poesia non assomiglia a nessun'altra, non si è mai fatta impressionare dalle mode e le ha anzi sempre rifiutate, non si è adeguata ai modelli culturali vigenti.

 

Nell'arco di un trentennio la voce di Anna Malfaiera si è irrobustita, si è fatta più sicura e consapevole, ma il tono, il timbro, il colore di quella voce sono rimasti in certo senso identici. E inconfondibili.

 

La sua poesia rincorre continuamente un significato e per rincorrere il "significato" è disposta a tutto: anche a sacrificare tutti gli apparati che di solito i poeti, soprattutto i mediocri poeti, considerano intrinseci alla poesia, alla poeticità: la musica, il disegno, il racconto.

 

Vorrei mettere subito in chiaro questi tre elementi, che mi sembrano essenziali per comprendere il senso vero dell'operazione poetica compiuta dalla Malfaiera, e dunque la pregnanza della sua scrittura.

 

Primo. La poesia della Malfaiera non canta: dice, e talvolta dice con una perentorietà direttamente proporzionale ai dubbi, alle incertezze, alle contraddizioni che la vita propone e che nella psicologia della nostra poetessa addirittura si esaltano.

 

Non solo dice, ma addirittura ricerca una definizione, nel senso che cerca di definire e definirsi nel mentre dice: definire se stessa e definire il mondo, o un mondo: e definire vuol dire anche, proprio, delimitarne i confini, ridurlo, quel mondo, alla propria dimensione per collocarsi più appropriatamente in esso; anche perché poi, alla fine, quando tutte le somme, o meglio tutte le sottrazioni sono state tirate, dire è l'unica cosa che resta da fare ai poeti.

 

Sul piano della metrica, tale volontà di dizione, opposta a quella che per semplificare ho chiamato cantabilità, si esprime attraverso la scelta di un verso lungo quasi sempre eccedente le misure tradizionali e quasi mai scomponibile in due più brevi versi canonici; un verso apparentemente libero ma che in realtà obbedisce a un ritmo di cui si possono ritrovare le costanti: scandito su alcuni tempi forti intorno ai quali si raggruppano le sillabe atone.

 

Alfredo Giuliani ha studiato questo tipo di verso, che chiama "atonale" e che considera come il portato più notevole della rivoluzione metrica novecentesca.

 

Sul piano della lingua, la volontà definitoria di questa poesia si esprime, ad esempio, attraverso l'uso frequente del verbo nel modo infinito, o altre volte attraverso l'adozione di un impersonale, quando addirittura le due modalità non si combinino, come nella poesia iniziale di Verso l'imperfetto:

"Imparare a vivere / non conosco una definizione credibile / evidente è l'esigenza della vita / ma non si sa che vuol dire / viverla intensamente / si vive quanto occorre mai di più", eccetera; e in una poesia in cui l'"io" è sempre così in primo piano, questa scelta la dice lunga sulla natura più generale, non solo e non semplicemente autobiografica dalla prima persona singolare: proprio perché si nega al diario e all'autobiografia, la poesia della Malfaiera può dire "io"; non si vergogna di dire "io" perché i pericoli dell'"io" li ha già tutti evitati in partenza.

 

Quanto al secondo punto cui prima accennavo: questa è una poesia senza figure e senza paesaggi: il paesaggio è quasi sempre abolito, neppure accennato.

 

Solo si immagina il chiuso di una stanza, un luogo che è essenzialmente residenza della mente: e si tratta oltre tutto di una stanza disadorna, spoglia.

 

Nel libro - E intanto dire - c'è qualche testo che fa eccezione a questa che comunque mi pare una regola generale non smentibile della poesia di Anna Malfaiera: dico Il trasloco , che ha un tono addirittura memoriale ed elegiaco, e dove appaiono personaggi (mentre la poesia della Malfaiera è in definitiva una poesia senza personaggi, anche se sempre è presente un interlocutore reale o ipotetico), ma non a caso alla fine il luogo e i personaggi che lo popolano, e la memoria stessa di quel luogo e di quei personaggi, vengono come cancellati, e la demolizione del luogo fisico (la casa) coincide con la devastazione del luogo mentale (la memoria): "La casa sarà demolita.

 

Noi vedremo / la sua devastazione e non invano ormai cresciuti / tutti senza memoria per rifarci nuovi".

 

Infine, il terzo punto. Fatta salva l'eccezione che ho appena ricordato, la poesia della Malfaiera non racconta: anzi su questo piano è addirittura timida fino alla reticenza.

 

Non racconta perché tutto ciò che dovrebbe essere raccontato è già avvenuto e dunque non vale la pena che sia raccontato: ciò che va detto è quanto resta di ciò che è avvenuto e non è stato raccontato.

 

Ciò che la Malfaiera non racconta noi lo possiamo anche immaginare, o forse no, non importa. Importa però che dalla poesia sia eliminato tutto il superfluo, che è poi tutto quello che fa il racconto, e allora la poesia non è il racconto ma il senso di quel racconto negato, quanto rimane di quel racconto dopo che tutto è stato consumato e cancellato: non solo il racconto ma anche il raccontato; il fatto, l'evento, la storia che vengono prima della poesia ma che ancora non sono la poesia.

 

La poesia di Anna Malfaiera tende dunque all'estrema riduzione; si tiene, come dire?, al risultato, e proprio per questo riesce a comunicarci un senso di precisione addirittura geometrico.

 

E' una poesia assai vicina a quella che Roland Barthes definisce come il "grado zero" della scrittura: priva quasi totalmente di orpelli e abbellimenti, anche quelli più connaturali al linguaggio della poesia. Assenza della metafora, ma assenza anche delle altre figure retoriche, almeno di quelle più esornative: proprio perché queste sembrano allontanare da quella precisione definitoria che si vuol conseguire. Perché alla fine ha ragione Gertrude Stein, che la Malfaiera ha molto indagato e molto sente a sé congeniale: una rosa è sempre una rosa.

 

In questo senso, non è una poesia che si possa parafrasare: dice quello che dice e solo quello che dice; e dice le cose come sono e come non sono (anche come non sono: molti testi della Malfaiera procedono per negazioni), dice che le cose stanno o non stanno così, e non si può far finta che stiano altrimenti.

 

Perché se una rosa è una rosa, anche una spina è una spina: e questa poesia è appunto spinosa, spigolosa, scabrosa, dura, irritata (anche irritante, se s'intende il termine nel suo giusto senso: proprio come un acido che si versi sulla nostra pelle), non consolatoria, meno che mai autoconsolatoria.

 

Ecco allora che la poesia di Anna Malfaiera si costituisce come poesia di pensiero, poesia che si nutre essenzialmente di pensiero: "pensiero poetante", per adoperare una felice formula da altri applicata al Leopardi (vicino di casa della nostra poetessa, non soltanto in senso geografico).

 

Pensiero che affonda, evidentemente, nella propria privata biografia ma che immediatamente si riscatta in forza di una tensione morale fortissima e fortemente contrastiva nei confronti di una realtà sentita come ostile e tuttavia indagata con tenacia e rigore.

 

Già: perché il luogo chiuso a cui poco fa si alludeva, la stanza forse senza finestra e con una porta che ti si chiude in faccia, non è il luogo della clausura e dell'assenza ma è precisamente il punto di partenza per il lungo viaggio di esplorazione all'interno del pensiero.

 

Di qui la formula felice adoperata da Alfredo Giuliani nella prefazione a Verso l'imperfetto: "poetica petrosa e disincantata", "versi sordi ai richiami delle Sirene; animati, si direbbe, unicamente dal sentimento della ragione e dal piacere morale di riconoscersi".

 

Dunque: pensiero poetante e pensiero ragionante, che rifiuta di piangersi addosso ma ogni volta fa i conti fino all'ultimo centesimo col vissuto proprio e altrui, col "fatto crudo", come suona il titolo di una poesia di E intanto dire, e ogni volta ci ricorda che la virtù fondamentale della ragione consiste nel non dimenticare, e nel lottare, nella colluttazione (anche col proprio interlocutore, anche con il se stesso che lo specchio riflette), senza mai perdere il filo e i fili del discorso, per affermare attraverso la ragione le proprie ragioni, e naturalmente anche e soprattutto le ragioni della propria presenza.

 


 

Dal testo di Francesco Paolo Memmo letto a Roma il 27 marzo 1994, presso la Galleria "Il Canovaccio", in occasione della presentazione del libro di poesie di Anna Malfaiera Il più considerevole, e già pubblicato nella rivista "Galleria" nel dicembre '93.