Per non dimenticare

ANNA MALFAIERA

Di Francesco Paolo Memmo

 

Da Produzione & Cultura

Rivista bimestrale del sindacato nazionale scrittori Anno X 2/3 MARZO/GIUGNO 1997

 

 

La mia amicizia con Anna: mi sembra impossibile, adesso, ma sono passati venticinque anni. Potrei raccontare fatti, circostanze, aneddoti, ma non me la sento, e non avrebbero alcun interesse. Ognuno vive l’amicizia a modo proprio, e ciascun modo va bene se c’è l’amicizia. La quale, quando c’è, dovrebbe basarsi innanzitutto sulla stima. E siccome stiamo parlando qui di una persona che era anche un poeta, dirò che, nel mio caso, c’è stata all’origine una fortissima stima per Anna in quanto poeta. Non la conoscevo ancora, infatti, quando parlai per la prima volta di lei in quello che era il mio primo lavoro critico pubblicato in rivista. E poi nel corso degli anni, non ho mai avuto dubbi: Anna è uno dei più straordinari poeti che io abbia mai conosciuto, straordinario anche proprio nel senso di fuori dall’ordinario, innanzitutto per la voce: che è inconfondibile, non somiglia a nessun’altra, e già da subito, dagli esordi, se già in un libro del’ 67, Il vantaggio privato, trovo questi verso che valgono a definirla per allora e per dopo: «seguo la traccia della mia presenza esatta / fuori dei giorni inutili»; «questa mia storia fatta appena nascente / che a un tempo incita considera / apprende e tiene a conto la parola / che preme e che non si smarrisce / se subito adempie ad un significato».

 

Ecco, la poesia di Anna è una poesia che continuamente rincorre un significato, e per rincorrerlo - l’ho detto altre volte, non faccio che riassumere quelli che a me paiono gli elementi fondamentali della sua poesia - per rincorrere un significato è disposta a tutto: anche a sacrificare tutti gli apparati che di solito i poeti, soprattutto i mediocri poeti, considerano intrinseci alla poesia, alla poeticità: la musica, il disegno, il racconto. E allora innanzitutto questo: la poesia di Anna non canta: dice, e talvolta dice con una perentorietà direttamente proporzionale ai dubbi, alle incertezze, alle contraddizioni che la vita propone e che nella sua psicologia addirittura si esaltavano. Non solo dice, ma addirittura ricerca una definizione, nel senso che cerca di definire e definirsi nel mentre dice: definire se stessa e definire il mondo, o un mondo; e se non sempre è possibile, se il compito è troppo arduo o addirittura impossibile. non importa: importa, intanto, dire: e intanto dire.

E poi: quella di Anna è una poesia quasi senza figure e senza paesaggi; vive come nel chiuso di una stanza, e oltretutto una stanza disadorna, un luogo che è essenzialmente residenza della mente; dove, se c’è uno specchio, quello specchio ci rimanda l’immagine di una smorfia, per cui anch’esso si fa beffe di noi, negandoci di ricomporre l’armonia a cui pure rendiamo.

 

E infine: fatta qualche notevole eccezione, la poesia di Anna non racconta: anzi su questo piano è addirittura timida fino alla reticenza. Non racconta perché tutto ciò che dovrebbe essere raccontato è giù avvenuto e dunque non vale la pena che sia raccontato: ciò che va detto è quanto resta di ciò che è avvenuto e non è stato raccontato. Ciò che Anna non racconta noi lo possiamo anche immaginare, o forse no, non importa. Importa però che dalla poesia sia eliminato tutto il superfluo, che è poi tutto quello che fa il racconto, e allora la poesia non è il racconto ma il senso di quel racconto negato, quanto rimane di quel racconto dopo che tutto è stato consumato e cancellato: non solo il racconto ma anche il raccontato; il fatto, l’evento, la storia che vengono prima della poesia ma che ancora non sono la poesia.

 

La poesia di Anna - spinosa, spigolosa, scabrosa, dura, irritata (anche irritante, se s’intende il termine nel suo giusto senso: proprio come un acido che si versi sulla nostra pelle), non consolatoria, meno che mai autoconsolatoria, è poesia di pensiero, poesia che si nutre essenzialmente di pensiero: «pensiero poetante», come quello di Leopardi che non solo in senso geografico è suo vicino di casa. Pensiero che affonda, evidentemente. nella propria privata biografia ma che immediatamente si riscatta in forza di una tensione morale fortissima e fortemente contrastiva nei confronti della realtà. Pensiero forte, dunque: che dice, che afferma, che costruisce un mondo nel mentre lo dice e lo afferma, per affermare anche, attraverso la ragione, le proprie ragioni, e naturalmente anche e soprattutto le ragioni della propria presenza e della propria scrittura, in un continuo stato d’allarme, o d’emergenza.

 

Nell’ultimo Libro che ci ha lasciato c’è tutto questo; e c’è, rispetto ai precedenti, un tono più cupo, una sofferenza più lacerante per le cose come vanno, per sé e per gli altri, c’è un’aria più malsana intorno, un senso molto forte della solitudine; e ci sono parole che quando le ho lette mi hanno fatto venire un brivido addosso, perché fino a quel momento erano state estranee al Lessico di Anna: l’abbandono, la rinuncia, la resa, il «molla tutto» del verso finale de La porta in faccia. Ma c’è anche, immediatamente dopo, e prima, la smentita a questo atteggiamento, e cioè l’idea vincente di tutta l’opera di Anna, quella che più me la fa amare: l’idea che in un altro suo libro era riassunta in un titolo che io metterei come titolo complessivo della sua opera omnia: Una resistenza inamovibile: attiva resistenza al male che è dentro e fuori di noi, per non farlo vincere, quel male, neppure quando sembra tanto più forte di noi, neppure quando si vendica di noi fino a farci morire.