Galleria Dicembre 1998 Francesco Paolo Memmo

con l'aggiunta del "Saggio" di Paolo Memmo

 

ANNA MALFAIERA: «IL PIÙ CONSIDEREVOLE1

 

Anna Malfaiera appartiene a quella generazione di poeti che, avendo esordito negli anni Sessanta, si sono trovati come schiacciati fra i poeti della vecchia guardia — ermetici, postermetici, neorealisti — e quelli della nuova (neosperimentalisti alla maniera pasoliniana e neoavanguardisti).

 

Come altri scrittori difficilmente inquadrabili in gruppi, scuole, etichette di qualsiasi conio, la Malfaiera ha dovuto aspettare un po’ prima che la sua poesia fosse considerata in tutta la sua importanza, ma lei non ha avuto fretta, ha continuato a seguire con estrema coerenza la sua strada ed è passata indenne anche attraverso i terribili anni settanta durante i quali si sono affermate alcune linee di tendenza, poi fortunatamente in gran parte rifluite o comunque ridimensionate.

 

Ciò che, insomma, in origine può aver nociuto, alla fine si è rivelato come «il più considerevole» dell’operazione poetica compiuta dalla Malfaiera: il fatto, voglio dire, che questa poesia non assomiglia a nessun’altra, non si è mai fatta impressionare dalle mode e le ha anzi sempre rifiutate, non si è adeguata ai modelli culturali vigenti.

 

Almeno a partire da Il vantaggio privato, del ‘67 (il primo libro, Fermo davanzale, 1961, essendo ancora legato a moduli più tradizionali, latamente postermetici), passando attraverso tre raccolte fondamentali come Lo stato d’emergenza (1971), Verso l’imperfetto (1984), E intanto dire (1991), fino a questo recentissimo libro — e come si ricava dalle date con intervalli di tempo anche abbastanza lunghi, seguendo anche in questo ritmi tutt’affatto propri, lasciando sedimentare in profondità le esperienze della vita, le letture, e insomma tutti i materiali che dall’esterno della realtà e della storia e dell’esperienza vissuta o dall’interno della propria psicologia confluiscono nei versi, dando loro forza e spessore: insomma, nell’arco di un trentennio, la voce di Anna Malfaiera si è certo irrobustita, si è certo fatta più sicura e consapevole, ma il tono, il timbro, il colore di quella voce sono rimasti in certo senso identici. E inconfondibili.

 

Dire, come ho detto, che la poesia della Malfaiera non assomiglia a nessun’altra significa assegnarle un posto a sé nel panorama della letteratura italiana così come essa si è andata configurando nel periodo a cui ho appena accennato. Non significa, invece, affermare che essa non abbia radici.

 

Anzi mi pare che, nella sua sostanza più vera, essa si inserisca perfettamente in una delle grandi strade che la letteratura da sempre ha percorso: perché quelle che in ogni epoca si disegnano sono viottoli, a volte vicoli ciechi; ma, in fondo, la vera letteratura si è trovata sempre di fronte a due sole arterie veramente percorribili, ugualmente degne beninteso, ma anche abbastanza diverse tra di loro.

 

Per sintetizzare all’estremo, ripeterò quel che scrive Italo Calvino in una delle Lezioni americane: «Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni ».

 

Io non so quale delle due strade sia più difficile da praticare; e lo stesso Calvino, del resto, si limita ad indicare l’esistenza delle due possibilità. So però su quale delle due strade io preferisco incamminarmi, sia come scrittore che come lettore: e questa è precisamente la seconda, quella con la quale — per ripetere le parole di Calvino — si vuole «comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni».

 

Mi pare che questo sia, da sempre, anche il percorso privilegiato da Anna Malfaiera, nel cui secondo libro — Il vantaggio privato — trovo ad esempio alcuni versi che mi piace citare tanto per tracciare qualche coordinata che si rivelerà poi utile a decifrare il senso anche di questa ultima, recente raccolta: «seguo la traccia della mia presenza esatta / fuori dei giorni inutili»; «questa mia storia fatta appena nascente / che a un tempo incita considera / apprende e tiene a conto la parola / che preme e che non si smarrisce / se subito adempie ad un significato».

 

La «mia presenza esatta», dice la Malfaiera; e poi: «questa mia storia», con un forte accento sull’ aggettivo dimostrativo; infine: «la parola / che preme e che non si smarrisce» indica la ricerca di una lingua ugualmente «esatta», capace di adempiere «ad un significato».

 

Ecco dunque il primo dato da sottolineare: quella di Anna Malfaiera è una poesia che continuamente rincorre un significato, e per rincorrere il «significato» è disposta a tutto: anche a sacrificare tutti gli apparati che di solito i poeti, soprattutto i mediocri poeti, considerano intrinseci alla poesia, alla poeticità: la musica, il disegno, il racconto.

 

Vorrei mettere subito in chiaro questi tre elementi, che mi sembrano essenziali per comprendere il senso vero dell’operazione poetica compiuta dalla Malfaiera, e dunque la pregnanza della sua scrittura.

 

Primo. La poesia della Malfaiera non canta: dice, e talvolta dice con una perentorietà direttamente proporzionale ai dubbi, alle incertezze, alle contraddizioni che la vita propone e che nella psicologia della nostra poetessa addirittura si esaltano.

 

Non solo dice, ma addirittura ricerca una definizione, nel senso che cerca di definire e definirsi nel mentre dice: definire se stessa e definire il mondo, o un mondo: e definire vuol dire anche, proprio, delimitarne i confini, ridurlo, quel mondo, alla propria dimensione per collocarsi più appropriatamente in esso; anche perché poi, alla fine, quando tutte le somme, o meglio tutte le sottrazioni sono state tirate, dire — e intanto dire — è l’unica cosa che resta da fare ai poeti.

 

Sul piano della metrica, tale volontà di dizione, opposta a quella che per semplificare ho chiamato cantabilità, si esprime attraverso la scelta di un verso lungo quasi sempre eccedente le misure tradizionali e quasi mai scomponibile in due più brevi versi canonici; un verso apparentemente libero ma che in realtà obbedisce a un ritmo di cui si possono ritrovare le costanti: scandito su alcuni (da tre a cinque, per lo più) tempi forti intorno ai quali si raggruppano le sillabe atone, più simile a quello di Bacchelli (il Bacchelli dei Poemi lirici) che a quello pavesiano (non a caso il nome di Bacchelli è fatto, a proposito della Malfaiera, da Alfredo Giuliani nella introduzione a Verso l’imperfetto; Giuliani ha studiato questo tipo di verso, che chiama «atonale», e che considera come il portato più notevole della rivoluzione metrica novecentesca).

 

Sul piano della lingua, la volontà definitoria di questa poesia si esprime, ad esempio, attraverso l’uso frequente del verbo nel modo infinito, o altre volte attraverso l’adozione di un si impersonale, quando addirittura le due modalità non si combinino, come nella poesia iniziale di Verso l’imperfetto: «Imparare a vivere / non conosco una definizione credibile / evidente è l’esigenza della vita / ma non si sa che vuol dire / viverla intensamente / si vive quanto occorre mai di più», eccetera; e in una poesia in cui l’«io» è sempre così in primo piano, questa scelta la dice lunga sulla natura più generale, non solo e non semplicemente autobiografica dalla prima persona singolare: proprio perché si nega al diario e all’autobiografia, la poesia della Malfaiera può dire «io»; non si vergogna di dire «io» perché i pericoli dell’«io» 1i ha già tutti evitati in partenza.

 

Quanto al secondo punto cui prima accennavo: questa è una poesia senza figure e senza paesaggi: il paesaggio è quasi sempre abolito, neppure accennato.

 

Solo si immagina il chiuso di una stanza, un luogo che è essenzialmente residenza della mente: e si tratta oltretutto di una stanza disadorna, spoglia; qui, in quest’ultimo libro, appena uno specchio, che restituisce la propria immagine in un gesto di apparente banalità quotidiana («Mi pettino allo specchio») che però immediatamente si traduce in una riflessione sull’«ingombro di presagi» che ci assilla, sui dubbi e sulle ferite mai rimarginate dell’esistenza («Le ferite essiccate / si riaprono »). Nel gioco del rispecchiamento, l’immagine che di noi si rimanda è quella della «smorfia», per cui anche lo specchio si fa beffe di noi, negandoci di ricomporre la forma simmetrica a cui pure caparbiamente tendiamo.

 

Nel libro precedente — E intanto dire — c’è qualche testo che fa eccezione a questa che comunque mi pare una regola generale non smentibile della poesia di Anna Malfaiera: dico Il trasloco, certo, che ha un tono addirittura memoriale ed elegiaco, e dove appaiono personaggi (mentre invece la poesia della Malfaiera è in definitiva una poesia senza personaggi, anche se sempre è presente un interlocutore reale o ipotetico), ma non a caso alla fine il luogo e i personaggi che lo popolano, e la memoria stessa di quel luogo e di quei personaggi, vengono come cancellati, e la demolizione del luogo fisico (la casa) coincide con la devastazione del luogo mentale (la memoria): «La casa sarà demolita. Noi vedremo / la sua devastazione e non invano ormai cresciuti / tutti senza memoria per rifarci nuovi»; e alludo anche a un’altra poesia, nella quale addirittura si staglia «una dolce collina verdeggiànte »: ma proprio in questa, appunto, come scrive Anna Malfaiera, è «il paesaggio immaginato» che «prevale», dal momento che quello reale rimanda ancora una volta a una «devastazione del suolo iniziata [...] / fin dall’età della pietra».

 

Infine, il terzo punto. Fatta salva l’eccezione che ho appena ricordato, la poesia della Malfaiera non racconta: anzi su questo piano è addirittura timida fino alla reticenza. Non racconta perché tutto ciò che dovrebbe essere raccontato è già avvenuto e dunque non vale la pena che sia raccontato: ciò che va detto è quanto resta di ciò che è avvenuto e non è stato raccontato.

 

Ciò che la Malfaiera non racconta noi lo possiamo anche immaginare, o forse no, non importa. Importa però che dalla poesia sia eliminato tutto il superfluo, che è poi tutto quello che fa il racconto, e allora la poesia non è il racconto ma il senso di quel racconto negato, quanto rimane di quel racconto dopo che tutto è stato consumato e cancellato: non solo il racconto ma anche il raccontato; il fatto, l’evento, la storia che vengono prima della poesia ma che ancora non sono la poesia.

 

La poesia di Anna Malfaiera tende dunque all’estrema riduzione; si tiene, come dire?, al risultato, e proprio per questo riesce a comunicarci un senso di precisione addirittura geometrico.

 

E una poesia assai vicina a quella che Roland Barthes definisce come il «grado zero» della scrittura: priva quasi totalmente di orpelli e abbellimenti, anche quelli più connaturali al linguaggio della poesia: lo ha notato da ultimo Giuliano Gramigna, nella postfazione a quest’ultima raccolta, a proposito dell’assenza, deliberata assenza, in questi versi, persino della metafora.

 

Assenza della metafora, ma assenza anche delle altre figure retoriche, almeno di quelle più esornative: proprio perché queste sembrano allontanare da quella precisione definitoria che si vuol conseguire.

 

Perché alla fine ha ragione Gertrude Stein, che la Malfaiera ha molto indagato e molto sente a sé congeniale: una rosa è sempre una rosa.

 

In questo senso, non è una poesia che si possa parafrasare: dice quello che dice e solo quello che dice; e dice le cose come sono e come non sono (anche come non sono: molti testi di Anna Malfaiera procedono per negazioni), dice che le cose stanno o non stanno così, e non si può far finta che stiano altrimenti.

 

Perché se una rosa è una rosa, anche una spina è una spina: e questa poesia è appunto spinosa, spigolosa, scabrosa, dura, irritata (anche irritante, se s’intende il termine nel suo giusto senso: proprio come un acido che si versi sulla nostra pelle), non consolatoria, meno che mai autoconsolatoria.

 

Ecco allora che la poesia di Anna Malfaiera si costituisce come poesia di pensiero, poesia che si nutre essenzialmente di pensiero: «pensiero poetante», per adoperare una felice formula da altri applicata a Leopardi (vicino di casa della nostra poetessa, non soltanto in senso geografico).

 

Pensiero che affonda, evidentemente, nella propria privata biografia ma che immediatamente si riscatta in forza di una tensione morale fortissima e fortemente contrastiva nei confronti di una realtà sentita come ostile e tuttavia indagata con tenacia e rigore.

 

Già: perché il luogo chiuso a cui poco fa si alludeva, la stanza forse senza finestra e con una porta che ti si chiude in faccia, non è il luogo della clausura e dell’assenza ma è precisamente il punto di partenza per un lungo viaggio di esplorazione all’interno del pensiero.

 

Pensiero forte, dunque (e probabilmente è ciò che intende Giulia Niccolai quando dice che quella della Malfaiera è poesia di meditazione: «una lunga meditazione elaborata per e attraverso la scrittura»; la Niccolai distingue tra il «pensare» e il «meditare», dando una connotazione più attiva alla meditazione e sottolineando la fatica addirittura fisica che comporta; è appunto il pensiero forte: che dice, che afferma, che costruisce un mondo nel mentre lo dice e lo afferma).

 

Di qui la formula felice adoperata da Alfredo Giuliani già dieci anni fa nella prefazione a Verso l’imperfetto: «poetica petrosa e disincantata», «versi sordi ai richiami delle Sirene; animati, si direbbe, unicamente dal sentimento della ragione e dal piacere morale di riconoscersi».

 

Dunque: pensiero poetante e pensiero ragionante, che rifiuta di piangersi addosso ma ogni volta fa i conti fino all’ultimo centesimo col vissuto proprio e altrui, col «fatto crudo», come suona il titolo di una poesia di E intanto dire, e ogni volta ci ricorda che la virtù fondamentale della ragione consiste nel non dimenticare, e nel lottare, nella colluttazione (anche col proprio interlocutore, anche con il se stesso che lo specchio riflette), senza mai perdere il filo e i fili del discorso, per affermare attraverso la ragione le proprie ragioni, e naturalmente anche e soprattutto le ragioni della propria presenza.

 

In tutto ciò mi sembra consista «il più considerevole» della poesia di Anna Malfaiera. E nell’ultimo libro che appunto Il più considerevole s’intitola queste costanti mi sembrano trovare ulteriore e splendida conferma, con una continuità del discorso poetico, una coerenza che deve essere opportunamente sottolineata, a cominciare proprio dalla scelta del titolo, che ha la stessa valenza di dichiarazione di poetica di certi titoli precedenti, in particolare Lo stato d’emergenza e E intanto dire. E allora, ecco il segno che, «aggregato cosciente produce / la cosa pensata scritta», con tutto il rovello che comporta la ricercata coincidenza tra scrittura e pensiero.

 

Ecco, dopo le prove affidate alla raccolta precedente, reiterata, «l’urgenza del dire» che «non ha mai fine»: e pongo l’accento, ora, non tanto sul «dire» quanto sull’«urgenza» (in una successiva poesia è «la premura del dire»), dal momento che l’atto della dizione deve essere tempestivo, per avere senso; e infatti: «Trattengo il vuoto di cui parlo vi immetto /la parola prima che si renda inservibile».

 

Ecco, di nuovo, l’affidarsi alla ragione, la ragione vincente («Edifica lo strazio del dopo / la ragione nel pieno del suo dominio»), magari in compresenza con l’istinto («Pronto l’istinto si arroventa attacca»). Ecco, ancora, il continuo stato d’allarme, o d’emergenza: «lo smarrimento persecutore», la diffidenza nei confronti delle «incidenze / impreviste che non coincidono», le confermate «debolezze e privazioni / come mie attitudini appaganti», ma anche il «solitario orgoglio» da tenere celato, l’«opacità dei giorni» attraversata dalla «complessa affezione del vivere», le «ossessioni presenti» che «non hanno itinerari esorcizzati ».

 

C’è, rispetto alle prove precedenti, un tono più cupo, una sofferenza più lacerante per le cose come vanno, per sé e per gli altri, c’è un’aria più malsana intorno, un senso molto forte della solitudine (in una poesia come questa, quasi tutta prima giocata sul rapporto dialettico io-tu, noto che viene a mancare pressoché totalmente, ora, la seconda persona); e c’è una più esibita fatica, che diventa strazio nel testo più effuso del libro, quello che inaugura la seconda sezione, La porta in faccia, nel quale leggiamo parole che non appartengono alla poesia della Malfaiera (l’abbandono, la rinuncia, la resa, il «molla tutto» del verso finale).

 

Ma c’è anche, immediatamente dopo, e prima, la smentita a questo atteggiamento, e cioè l’idea vincente di tutta l’opera di Anna Malfaiera, quella che più me la fa amare: l’idea che nel libro di tre anni fa era riassunta in un titolo che io metterei come titolo complessivo di un’ideale opera omnia della Malfaiera — Una resistenza inamovibile — e che qui graziaddio torna più e più volte: «Nell’urto di tensioni contrastanti / mi oppongo al piano stratificato di evocazioni / nominali per affermare che persiste in me! un’attenzione vigile attiva indipendente / nella valutazione critica degli avvenimenti! un’energia di segno»; e poi: «Soggetta ma non rassegnata»; e poi ancora:

« Non trattengo la rabbia che da tempo voleva / esplodere restituisco temeraria il poco / forse il nulla di quanto mi ha sopraffatto»; finanche nelle forme di una dura lotta contro la parte meno resistente di sé: «Me stessa apprensiva esausta/ si configura oggetto della mia avversione».

 

Questa poesia di attiva resistenza al male che è dentro e fuori di noi ricorda la leopardiana ginestra (anche se, per pudore, la Malfaiera adopera in una delle poesie qui raccolte l’immagine più corriva dell’edera), l’eroico pessimismo di Leopardi, tanto più eroico se il messaggio di resistenza giunge proprio nel momento della massima manifestazione degli «ostacoli urti tensioni » che sembrano non concedere scampo.

 

E se il male di cui parla Anna, i «carichi fardelli affanni prove di forza», è anche quello nostro e del nostro tempo, bisognerà concludere che anche per questo, soprattutto per questo, la poesia di Anna Malfaiera è oggi più che mai necessaria.

 

 

ANNA MALFAIERA

Anna Malfaiera è nata a Fabriano nel 1926 ed è morta nel 1997. Ha vissuto e lavorato per molti anni a Roma. La sua attività letteraria si è espressa principalmente in poesia. Ha collaborato a varie riviste letterarie, ha partecipato a letture, anche nelle scuole, e a varie manifestazioni culturali.

Sue poesie sono apparse su molte antologie.

Il suo incontro con il teatro è avvenuto nel corso degli anni 1987 - 1989.

Sue opere sono: Fermo davanzale Padova, Rebellato, 1961; Il vantaggio privato, Caltanissetta, Sciascia, 1967, 1970; Lo stato d'emergenza, a cura di E. Villa, con disegni di V. Trubbiani, Macerata, La nuova foglio, 1971; Verso l'imperfetto, a cura di A. Spatola, Mulino di Bazzano, Tam tam 1984; E intanto dire, a cura di M. Lunetta, Roma, Il Ventaglio, 1992; Il più considerevole, con una nota critica di G. Gramigna, Verona, Ed. Anterem, 1993; E intanto dire, raccolta antologica dalle opere, a cura di A. Giuliani, Ed. Edimond, Città di Castello, 1999.

 

Dal testo di Francesco Paolo Memmo letto a Roma il 27 marzo 1994, presso la Galleria "Il Canovaccio", in occasione della presentazione del libro di poesie di Anna Malfaiera Il più considerevole, e già pubblicato nella rivista "Galleria" nel dicembre '93.

 

BIBLIOGRAFIA:

L. Luisi "Letteratura", n. 33-34, 1958; C. Fabbri "La Fiera Letteraria" 4.2.1962; A. Pupino "Prospetti" n. 9, 1968; P. Dallamano "Paese Sera - Libri", 1968; I. Tognelli "Prospetti" n. 10-11-12, 1968; G. Barberi Squarotti "Letteratura" n. 93, 1968; A. Frattini "Galleria d'arte" Quaderno n. 1, 1969; A. Castelli "L'Avanti" 15.11.1969; F. Ciceroni "Corriere Adriatico" 23.10.1970; M. Picchi "L'Espresso" (inserto) n. 51, 19.12.1971; C. Antognini, Scrittori Marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni 1972; S. Folliero "Uomini e libri", n. 40, 1972; F. Vagni "L'Avanti", 20.8.1972; G. Niccolai "Tam tam", n. 6-7-8, 1973; G. Di Genova "Paese Sera" 1973; A. Giuliani "Il Verri" n. 2, giugno 1973; F.P. Memmo "Galleria" n. 5-6, 1974; G. Niccolai Poetry;: Italian Sickress of the Seventies, Toronto 1974; A. Giuliani Le droghe di Marsiglia, Adelphi, 1977; A. Giuliani "La Repubblica - Cultura" 13.7.1984; M. Lunetta Poesie d'amore, Roma , Newton Compton 1986; G. Niccolai Differentia n. 1, 1986, Cuny Queens College, 1986; I. Vicentini (a cura di) Le ultime tendenze, Ed. ERI, 1991; G. Pampallona "Corriere di Viterbo" 17.4.1991; F. Muzzioli "L'Immaginazione" n. 93, febbraio 1992; M. Renzaglia "KR-991" n. 3, 1992; F.P. Memmo "Galleria" dicembre 1993; M. Lenti "Hortus" n. 17, 1995; M. Lunetta Et dona ferentes Ed. Del Girasole, Ravenna, luglio 1996; F.P. Memmo "Produzione & Cultura" n.2-3 marzo/giugno 1997; G. Garufi La Poesia delle Marche - Il Novecento, StudioLito, Città di Castello, 1998.

 

 

 

1 Testo letto a Roma il 27 marzo 1994, presso la Galleria «Il Canovaccio», in occasione della presentazione del libro di poesie di Anna Malfaiera Il più considerevole, Anterem Edizioni, Verona 1993.