Periscopio numero 14 Novembre 2007

Alessandro Moscè

 

I Versi di Anna Malfaiera a dieci anni dalla morte

 

La poesia di Anna Malfalera (Fabriano 1926-1997) è riconducibile ad una scelta privilegiata che appare ineccepibile: il verso essenzialmente discorsivo nella tecnica (senza attenzione particolare alla metrica), è piuttosto ragionato, pianificato nella sostanza (nonché nell’approfondimento ripetuto delle tematiche). Il percorso della Malfaìera (che si è dilungato per più di trent’anni), è costellato di un continuo interrogarsi, di un’auto-coscienza meditativa, in uno scavo interiore portato perfino all’eccesso, estraendo una parabola di riflessioni inesauste sulla domanda esistenziale vita-morte, in un linguaggio dalla forte tensione monologante.

Non c’è dubbio che Anna Malfaiera abbia voluto intendere il rapporto con il mondo della scrittura in senso rigoroso e razionale, optando per una poesia scarna, dove gli oggetti sono pochi, essenziali, dislocati nei luoghi pervadenti e ossessivi della mente, in cui le immagini sono quasi sempre assenti o a supporto dell’idea.

Prevalgono rigide analisi, a volte impietose, senza ritorno, prive di un abbandono che non sia dettato dalla lucida razionalità, tanto da indurre Alfredo Giuliani a definire la Malfaiera una poetessa del “sentimento della ragione”, nel logismo che forse meglio la definisce. È proprio il pensare del sentimento e non il sentimento come stato d’animo a rendere una voce inconfondibile, coerente durante il lungo arco di produzione che non ha mai registrato la Malfaiera staccarsi dall’intento di partenza, rifuggendo sperimentalismi d’occasione o l’assonanza da coniugare con la facilità speculativa del verso.

I ragionamenti di Anna Malfaiera sono caratterizzati da sentenziose decisioni o da refrattari tentativi di conoscere attraverso uno stretto spazio ricreativo. Una poesia dell’io, quindi, in cui c’è un forte recupero della soggettività che non si dipana nell’ambientazione o in uno scenario da arcadia:

no, i luoghi sono solo ragionati. Questo io che si interroga di continuo senza riuscire a superare o a sublimare una condizione di severa inquietudine, complice dell’intera esistenza non solo letteraria della Malfaiera, è un io cerebrale in tensione con se stesso, mai con gli altri (meno che mai con gli uomini), con le situazioni estrerne, con vicende che surroghino l’esperienza individuale per scavalcarla in un improbabile altrove. Solo il monotono incedere quotidiano risulta l’esclamativo da cui si elevano blocchi di scrittura, mucchietti di pietra in bilico l’uno sopra l’altro (Giuliani n.d.r.).

Il linguaggio atono è spessore dei corpi e delle cose in un contesto pensato e ideato, in cui viene tessuta la traccia di una presenza “fuori dai giorni inutili”, come scritto dalla Malfaiera stessa.

Si rincorre un significato tenace, di resistenza alle contraddizioni umane che si ri-definiscono come processo esorcizzante. Il senso dell’io che predilige il verso all’infinito si riduce ad un risultato, mentre si dice ciò che si dice nel turbinante rifluire di parole.

Un verso persuasivo, dove è la calma indolente a sacrificarsi in un contesto solitario, schivo, dove sembra che ci sia sempre tempo per l’attesa e mai si può dubitare, anche della propria pigrizia che tempra il timore esistenziale. Il dire è dell’uomo che parla da solo, che sente rimproveri amari, trascinati in un’inquietudine che ristagna. Non è il paese dell’anima che sprofonda pigro dentro i monti a risollevare nè ad alimentare una memoria attiva. Prigione come consumata, lo scorcio di qualche paesaggio, magari quando il cielo è buono, figura l’unica variante nella monotona stagione casalinga. E si parla di paese schivo ai contatti, riallacciando il filo di continuità con il carattere tipico delle Marche, che Carlo Antognini affermava essere un grande paese dove la pratica solitaria dei campi e del mare ha reso gli abitanti taciturni.

Ecco allora che la Malfaiera, nei testi più distensivi, si lascia andare a felici percezioni estemporanee, come l’odore di case tra lo stagno, le polverose ciglia degli infissi, le canne e le querce senza fronde, particolari che si stagliano sul pensiero recalcitrante secondo quella variante a cui sì accennava, quando cioè il groviglio dei pensieri lascia il posto ad uno sguardo nuovo, illuminato. L’ottobre limaccioso o la discesa sul greto a pascolo del gregge, segnano un tempo sanguigno dove tutto va via. Tempo sanguigno e tiranno, tempo in fuga nella dura prova dei giorni.

La Malfaiera è schietta proprio perché dice, liberamente. “Appena desta già mi sento stanca”, oppure brutalmente: “Considero che il lavoro stanca e l’umiliazione avvilisce”; considerazioni scarne, un tracciato che non salva nulla se non una piccola motivazione dell’anima, e l’interrogativo rimane sospeso, ingrato, perfino inefficiente.

Il non sentire alcuna necessità premere, né il desiderio di conservare nella memoria persone o awenimenti, richiama l’eco del tempo reale con istanti allungati e incalcolabili. La soluzione è lontana, improbabile, non conta: rimane una lunga fase di constatazione in cui nessun monito indispensabile viene fatto. Si può sfidare simbolicamente la pioggia, ma non tracciare un programma, non riservare ammonimenti o difese.

“La nostra condizione non si può cambiare”, viene detto altrettanto brutalmente, eludendo le ragioni delle diffidenze chiamate “sospensioni di giudizio”, insidie e accidenti, o meglio ancora “allegoria informale della sfiducia”. Il gioco delle valutazioni non semplifica mai, anzi sembra non incline a trovare una soluzione definitiva, perché il dubbio delle intenzioni e delle contraddizioni rimanga a livello teorico.

C’è anche spazio per la contestazione, per l’accusa: “Troppo presto all’inganno prepariamo il sorriso/ troppo presto impariamo a essere ignobili/ È questo uno stato d’emergenza durevole, minaccioso, considerevole, come se, parafrasando la Malfaiera, non si potesse più ridere di vera allegria, e “l’anima illeggibile si dispone unghia incarnita”, verso efficacissimo che rende l’idea di una ragione giunta dove non può l’amore, ma senza attendersi prodigi, eccessi, imprevedibili risultati.

Un altro aspetto non secondario è l’input autobioma irreparabilrnente terreno fertile per constatare la realtà cruda, per accertarla, colpirla, limitarla. Il pretesto è abnorme, irragionevole, e nel sentimento freddo, duro, coerente, l’identità femminile della Malfaiera appare come un elemento insoluto nell’irrevocabilità del tempo sopraffatto, che finisce per superare ogni pretesto nei gesti di comprensione e giudizio.

“La mia impazienza è una ragnatela/intessuta e insensata nella passività/assaporata diluita cresciuta con me/con me si immobilizza la rabbiosa/ impotenza che non esce da me”.

L’impazienza, uno dei fili conduttori di tutte le raccolte poetiche di Anna Malfaiera, registra la sola necessità della scrittura, in un “e intanto dire” che si fa comando obbligato al quale la poetessa fa riferimento in uno testi di questa raccolta, la più significativa. Il vivere che non dà consigli e convincimenti, non svela né il bene né il male, parenti stretti e inestricabili sentori di energie accumulate e sprecate.

Una poesia urgente nel bisogno di rivelare attraverso il dire, appunto, non con il cantare, nell’accezione di segni inconfondibili, segni che non diventano avvenimenti, ma spesso sono mere negazioni. Nella dimensione costante del dire comunque qualcosa, la Malfaiera ha registrato un processo di acquisizione indotto, come se l’evento fatale fosse già accaduto da tempo e abbia inciso irrimediabilmente il giorno, sempre feriale.

Si va verso l’imperfetto, che è l’espressione più piena dell’imperfezione del pensiero, grido permanente, conflitto irrevocabile.

 

Da “E intanto dire”

(Citta di Castello Edimond, 999)

 

“Non ho mai saputo perché mi ostino a scrivere.

Determinata. Mai rinunciare correggermi

migliorare. Le mie energie si raccolgono

quasi prestabilite combinate unite opposte

disgiunte a modo loro. Mi premono. Nell’incastro

confermo e rafforzo una qualche certezza

che appena posta rifiuta di risolversi.

Amo la tregua dello scrivere non considero

le ragioni che lo provocano. Non ho veri

strumenti. Soppeso lo stupore che mi causano

le regole e i loro artifici. Stupore

che coinvolge il mio essere imprevista.

Una pratica che non so definire se di fede

o finzione. Pudore è farse ne gioco.

Un equivoco l’indagare. Meglio non sostare

 

riflettere non presagire e intanto dire”.